“E se poi finiscono?”. Ovvero come ci roviniamo la vita con l’economia delle carezze
Da alcuni mesi seguo in terapia A., una ragazza davvero molto brava a prendersi cura degli altri, ma non altrettanto a prendersi cura di sé o ad accettare le attenzioni altrui. Una situazione comune a molte persone, apparentemente molto generose, ma che rischiano di appassire al loro interno, perché incapaci di “nutrirsi”.
Una delle ultime volte in cui ho incontrato A., abbiamo scoperto insieme che per lei è molto difficile accettare i gesti che esprimono cura nei suoi confronti, perché si sente in colpa verso chi le mostra attenzione, come se mostrando attenzione a lei la togliessero a se stessi o ad altre persone che ne potrebbero avere bisogno. In un certo senso la sua idea è che queste attenzioni sono in un numero limitato, per cui se le danno a lei non ce ne sono per gli altri.
Questa idea nasce dall’esperienza che A. ha fatto da piccola, quando l’attenzione della mamma era da dividere con i suoi fratelli: in alcune occasioni quell’attenzione era tutta per lei e non poteva essere per i fratelli perché la mamma si trovava in ospedale con lei, mentre in altri momenti era tutta rivolta ad un fratello in difficoltà e non c’era spazio per lei e la sorella.
Logicamente questo corrisponde al vissuto interno di A., a quella che era la sua percezione di bambina, ma non è detto che sia stata la realtà delle cose. Il problema è che a partire da questo vissuto, lei si è formata una sua idea del mondo, basata su un falso presupposto, che rischia di rovinarle la vita.
Facciamo chiarezza
Le attenzioni che riceviamo dagli altri vengono chiamate in Analisi Transazionale carezze o più opportunamente, con il termine inglese usato da Eric Berne, stroke. Si tratta di riconoscimenti che gli altri ci danno, i quali possono essere positivi o negativi, ma in entrambi i casi vanno a soddisfare la nostra fame di conferma e riconoscimento, appunto, perché ci dicono che l’altro ci sta vedendo, che per lui esistiamo.
Per approfondire il tema delle carezze rimando a questo articolo, che spiega la nostra fame di contatto e a quest’altro articolo, che invece spiega i diversi tipi di riconoscimento che possiamo ricevere da chi ci sta accanto.
Al momento a me interessa maggiormente focalizzarmi su un altro aspetto, quella che sempre in Analisi Transazionale viene chiamata Economia delle Carezze o Stroke Economy. Si tratta di alcune “regole” che riguardano il dare e prendere le attenzioni e i riconoscimenti di cui abbiamo bisogno e che, spesso in modo inconsapevole, ci vengono trasmesse dai nostri genitori o da altre figure significative.
Le cinque regole “sbagliate”
Vediamo insieme quali sono questi messaggi che vanno a costituire la Stroke Economy e come ci vengono trasmessi.
Non dare carezze che vorresti dare.
Il messaggio che è stato dato per veicolare questa regola suona più o meno così: Se ti dimostri gentile, potrebbero pensare male. Potrebbero rifiutare la tua dimostrazione di affetto. Oppure: Evita di farlo perché non sei capace di comunicare i tuoi sentimenti.
Non chiedere le carezze di cui hai bisogno.
In questo caso l’idea trasmessa è: Che valore ha un favore, un aiuto, un gesto d’amore se non arriva spontaneamente? Nessuno! Oppure: Se chiedi aiuto potresti apparire debole, fragile e dipendente.
Non accettare le carezze che desideri.
Quello che viene suggerito per far accettare questa regola è questo pensiero:
Non fidarti di chi ti dà qualcosa senza chiedere nulla in cambio. Ha detto quella carineria, ma non lo pensa davvero.
Non rifiutare carezze che non vuoi.
Per spingere a non rifiutare anche le carezze negative vengono inviati messaggi di questo tenore: Potresti sembrare maleducato e scortese se non accetti le critiche, anche se ingiuste. Oppure: Potresti ferire quella persona se la respingi, sebbene non ti piaccia. O ancora, soprattutto in caso di ragazze e donne: Se rifiuti le avance di tutti, non ci sarà più nessuno che te le farà”
Non fare carezze a te stesso.
In quest’ultimo caso il messaggio che viene trasmesso è: Non vantarti delle tue capacità, è da superbi e vanitosi. È stupido farsi i complimenti da solo.
Da dove nasce l’errore
L’idea di dover fare economia delle carezze nasce dal considerale un bene da tutelare, da non sprecare, di cui non abusare. Perché altrimenti finiscono! Un po’ quello che pensa A., che pur desiderando delle carezze non le chiede e non accetta quelle che le vengono date, ma soprattutto è incapace di farle a se stessa.
Il risultato della voglia di proteggersi da un abuso delle stroke, secondo Claude Steiner (che fu allievo di Berne), è che non siamo più in grado di soddisfare naturalmente il nostro bisogno fondamentale di contatto e riconoscimento. E questo può andare ad annullare la capacità di amare in modo autentico.
Per tale motivo ci si accontenta delle stroke negative, perché è meglio una stroke negativa che nessuna stroke (ovvero: mi fa male, ma almeno mi dice che per l’altro esisto), oppure ci si accontenta di carezze di plastica, finte, in cui non crede né chi le dà né chi le riceve, ma che per un momento colmano un vuoto interiore (per poi farlo sentire ancora più grande!).
Tutto questo è raccontato meravigliosamente, sempre da Claude Steiner, ne La favola dei “caldomorbidi“, la quale indica anche come venir fuori da questo inganno.
Allora che fare?
In un certo senso la soluzione è molto semplice: basta ignorare le regole dell’economia delle carezze!
Il che vuol dire confidare nel fatto che la possibilità di dare l’attenzione, così come quella di donare il proprio affetto, non viene a cessare se l’attenzione stessa viene riversata su molte persone. Anzi, semmai cresce! Perché in una società capace di scambiare riconoscimenti in modo spontaneo e naturale è più semplice poter dare a tanti le proprie carezze e ricevere tutte quelle di cui si ha bisogno per stare bene!
L’immagine perfetta per descrivere tutto questo è una famiglia serena (non perfetta!), in cui ci sono genitori che sanno darsi carezze reciprocamente, senza che per questo motivo l’affetto verso i figli venga meno e fratelli che sanno riconoscersi reciprocamente, amando allo stesso tempo ciascuno dei genitori, senza che uno sia geloso per l’affetto dato all’altro, perché ciò non lo priva della sua “porzione”.
Del resto questa è un’esperienza comune, che ci insegna come laddove i riconoscimenti e le attenzioni circolano in modo spontaneo, si ha sempre più affetto da donare perché si riempie in continuazione il proprio “serbatoio” (a tal proposito vedi il mio articolo Riempire l’altro di amore). Allora perché non dovrebbe essere valido anche fuori dalla famiglia?