Perché cambiare fa paura?
“Dottoressa…”
“Sì?”
“Cambiare è mortale.”
“Chiara?”
“Sì?”
“Cambiare è vitale.”
(Per dieci minuti, di Chiara Gamberale)
In queste poche battute probabilmente è racchiuso gran parte di quello che c’è da dire sul cambiamento, sul perché sia così difficile cambiare e perché al contempo sia assolutamente necessario farlo.
Cambiare è mortale
Il bruco ci insegna che cambiare è mortale, perché cambiare vuol dire rinunciare ad una parte di sé, metterla da parte per un certo periodo di tempo o per sempre.
Cambiare è mortale perché, come accade per la potatura, vuol dire tagliar via qualcosa ed un taglio non è mai indolore.
Ma cambiare è mortale anche nella misura in cui vuol dire far scomparire abitudini che non portano al benessere, ma che ormai fanno parte di sé. Perché eliminare tali abitudini fa paura.
Il cambiamento fa paura.
E ci sono persone che scelgono di non affrontarlo. Persone che preferiscono non mettere a tacere quella parte di sé che non fa bene, che si tengono le abitudini che fanno soffrire, perché (come mi ha detto pochi giorni fa una paziente) si preferisce un dolore conosciuto ad uno sconosciuto.
Cambiare è vitale
E poi ci sono le persone che accettano la sfida del cambiamento, accettano di affrontare l’ignoto e scoprono che cambiare è vitale.
Faticoso, anche doloroso (nessuno vuole o può negarlo), ma vitale!
Perché cambiare significa far fiorire nuovi germogli sul ramo potato. Significa dar tempo al bruco di evolvere in farfalla. Significa scoprire e valorizzare nuove parti di sé, precedentemente tenute in scarsa o nulla considerazione.
Cambiare è vitale nella misura in cui permette di dar vita ad un nuovo sé, con tutto quello che ciò comporta in termini di fatica e stupore, sofferenza ed esaltazione, delusione e felicità.
Cambiare vuol dire evolvere, dare aria e nutrimento a parti di sé precedentemente soffocate. Vuol dire realizzare sogni e desideri, ma soprattutto realizzarsi!
Dove inizia il cambiamento?
Qualche giorno fa, durante il primo incontro de “Il tè delle donne” una delle partecipanti si chiedeva cosa ci spinge a cambiare: come fanno le persone a rendersi conto che vivono situazioni non adeguate, limitanti, se non addirittura pericolose? Perché alcuni hanno la capacità di rendersene conto, mentre altri restano bloccati, non vedono cosa vivono oppure, pur vedendo, scelgono di non agire?
Personalmente credo che la spinta al cambiamento nasca dal sentirsi insoddisfatti dalla propria esistenza attuale. Si tratta di un’insoddisfazione che può riferirsi a molteplici aspetti della propria vita (da quello economico a quello relazionale, giusto per fare due esempi), ma che ad un certo punto diventa insostenibile. O che semplicemente induce a guardarsi attorno, a vedere se esistono alternative più gradite.
Ma c’è un altro aspetto che va preso in considerazione. Lo esprimo con le parole di Rosa Luxenburg: “Chi non si muove non può rendersi conto delle proprie catene“.
Questa frase ci dice chiaramente come per comprendere quanto determinate situazioni ci rendano prigionieri dobbiamo almeno tentare un movimento al di fuori da esse. L’essere abituati a vivere in un certo modo, infatti, può pregiudicare la capacità di rendersi conto di stare in una gabbia. Ma non appena si prova a fare qualcosa di diverso dal solito o ci si ritrova anche solo a pensare di oltrepassare i limiti in cui si è bloccati (non importa se siano stati imposti da altri o auto-imposti), allora immediatamente le catene diventano visibili. E se ne avverte tutta la pesantezza.
Lì ha inizio il cambiamento!
Il che vuol dire, paradossalmente, che il cambiamento comincia esso stesso da un cambiamento. Di mentalità!
A volte questo primo passo viene compiuto da soli, altre volte invece c’è bisogno di un aiuto per comprendere di essere stati a lungo imprigionati. Molto spesso compiere questo passo non è affatto semplice.
Abitudini che imprigionano
“Basta davvero un attimo, no?”
“Per fare cosa, dottoressa?”
“Perché i nostri schemi emotivi e mentali, da cui l’inconscio si sente protetto e che consideriamo i confini della nostra identità, si rivelino in realtà dei limiti”
“Per dieci minuti“, di Chiara Gamberale
I nostri schemi mentali ed emotivi ci aiutano a comprendere il mondo e le relazioni in cui ci muoviamo e ci aiutano a muoverci al loro interno, ma se troppo rigidi rischiano di diventare delle prigioni che ci tolgono la libertà di pensare ed agire in modi nuovi.
Allo stesso modo ognuno di noi ha delle abitudini tanto in termini di comportamenti, quanto in termini di atteggiamenti verso sé e verso gli altri, che da una parte ci danno sicurezza, perché sappiamo come agire e cosa aspettarci in risposta alle nostre azioni, mentre dall’altra parte ci incatenano costringendoci a ripetere anche le azioni che provocano sofferenza.
Sarebbe naturale pensare che, quando si ha ben chiaro che una determinata abitudine si è rivelata negativa, sia spontaneo cambiarla. Eppure le cose non stanno così! Perché chi mette in atto determinati comportamenti o assume certi atteggiamenti conosce solo quelli, non sa cosa altro fare e anche se inizia a intravedere nuove prospettive, spesso ha paura di abbandonare le sue abitudini. Proprio perché esse danno sicurezza, mentre l’ignoto fa paura.
Stando così le cose, per cambiare bisogna assumere il rischio dell’incertezza.
Sognare il futuro
Massimo Gramellini ha detto che “se vuoi fare un passo avanti, devi perdere l’equilibrio per un attimo“.
Vuol dire che per avanzare nella nostra esistenza dobbiamo accettare di perdere il sostegno che ci viene dalle nostre sicurezze. Contare sulle nostre forze. Non appoggiarci al passato, ma proiettarci nel futuro.
Senza dimenticare che per avanzare bisogna essere disponibili ad imparare cose nuove: modi nuovi di vedere se stessi e gli altri, atteggiamenti nuovi con cui impegnarsi nelle relazioni interpersonali, comportamenti nuovi con cui muoversi nel mondo…
Credo che il coraggio per fare questo passo in avanti possa arrivare solo dal guardare in faccia il futuro che si sta sognando. O meglio: dal rendersi conto di quelle che saranno, da un lato, le conseguenze del restare come e dove si è e, dall’altro, le conseguenze della scelta di cambiare.
A volte, infatti, non basta semplicemente rendersi conto ad esempio della sofferenza vissuta in passato o nel presente. Diventa allora necessario metterla a confronto con ciò che il cambiamento produrrà, con i risultati che si spera di ottenere, con il futuro che si potrà vivere se si deciderà di mettersi in gioco.
Detto in altri termini il coraggio di affrontare l’incertezza, di fare quel passo nel vuoto e superare la mancanza di equilibrio viene dal saper sognare e concretamente progettare un futuro nuovo. Un futuro fatto di liberà, di aria buona da respirare, di sogni che si realizzano, di una vita che trova il “suo posto”.