Se i nostri figli sono tristi…
Uno dei tanti compiti dei genitori è insegnare ai figli la competenza emotiva, ossia trasmettere loro le capacità per esprimere, comprendere e regolare le emozioni.
I bambini piccoli, infatti, pur sperimentando i cambiamenti mentali e fisici legati per natura alle emozioni, non sanno dare un significato a quello che vivono. Motivo per cui è compito dei genitori dare il giusto nome a quello che sta accadendo ai figli ed è sempre compito dei genitori spiegare il senso di quello che succede, affinché i bambini sappiano collegare il proprio stato agli eventi circostanti.
Questo significa che i genitori devono essere in grado di prestare la giusta attenzione a quello che i figli stanno vivendo e avere loro per primi la competenza emotiva necessaria a comprendere da cosa dipende, così da aiutare i figli a fare i giusti collegamenti, intuendo cosa comunica l’emozione sperimentata e il bisogno che si cela dietro di essa. Inoltre i genitori devono essere un esempio di come le emozioni possano essere sperimentate in tutta la loro potenza e al tempo stesso espresse in maniera adeguata, regolando lo stato di attivazione psico-fisiologica. Ma soprattutto madri e padri devono accettare ed accogliere tutte le manifestazioni emotive dei figli, senza sminuirle, deriderle o rimproverarli perché esistono.
Le emozioni non sono giuste o sbagliate, buone o cattive: sono sempre la risposta a qualcosa che sta accadendo dentro o fuori di me. E come tali sono neutre e sempre corrette. Ma se un genitore mostra di non gradire che il proprio figlio o la propria figlia esprima una specifica emozione, allora il bambino o la bambina comincerà a nascondere quell’emozione naturale. E a coprirla con una diversa e falsa, che non può aiutarlo/a a decifrare il senso di quello che sta vivendo e quello di cui può aver bisogno per stare meglio.
La tristezza dei bambini
Per capire meglio di cosa parlo, entriamo nel merito della tristezza. Come ho già spiegato nel mio articolo Ti permetti di essere triste?, la tristezza ci parla di una mancanza e del bisogno di una presenza affettuosa e rassicurante.
Un bambino può essere triste per tantissimi motivi, anche in base all’età: dal non voler essere lasciato la mattina a scuola dalla mamma al non voler mai smettere di giocare con l’amico del cuore, dalla perdita reale di una persona cara alla fantasia che possa succedere una cosa del genere, dal brutto voto al rimprovero ricevuto più o meno giustamente…
Qualunque sia il motivo, quando il bambino è molto piccolo non riesce a comprendere cosa gli sta accadendo: si sente strano, diverso, magari piange, ma non sa dare nome al proprio stato. Allora è necessario che il genitore gli si ponga accanto e gli dica cosa sta succedendo, che dia nome al suo sentire, dando anche solo così diritto di esistenza alla tristezza.
Dopo aver dato il nome all’emozione, è importante che si provi a spiegare al bambino – in termini adeguati alla sua età e alla sua capacità di comprensione – da dove ha origine, cosa l’ha provocata. E per fagli capire che va bene che si senta triste, può essere opportuno raccontargli una situazione in cui anche l’adulto si è sentito triste da piccolo oppure delle occasioni in cui tutt’ora gli capita di essere triste. In questo modo il bambino comprende che non deve vergognarsi per ciò che prova, che è qualcosa di normale, che parla di quello che vive e che ha senso proprio per questo.
Quando poi il bambino è più grande e ne è capace, è importante che gli si dia modo di parlare, di spiegare quello che è successo, di nominare i suoi sentimenti, dando attenzione e valore alle sue parole. Perché parlare aiuta a dare senso, oltre a dar modo di sentirsi profondamente capiti, rispondendo a quella che è un’esigenza universale.
Infine è necessario essere presenza, quella presenza di cui il bambino sente la mancanza e il bisogno. Dare un abbraccio o semplicemente restare seduti accanto ad un bambino che piange (in base a quello che è disposto ad accettare in un momento così delicato) significa proprio dare questa presenza. Può succedere che si venga rifiutati e allontanati da un bambino in lacrime che appare più arrabbiato che triste, ma è compito del genitore accogliere anche il rifiuto, farsene carico senza allontanarsi. E per farlo deve tenere a mente qual è il reale bisogno del figlio e agire per il suo benessere, mantenendo la calma e trasmettendogliela mostrando di rispettare quello che vive.
Rispettare la tristezza
Per un genitore vedere un figlio o una figlia triste a volte ha il sapore di un fallimento: nessun genitore desidererebbe vedere il proprio figlio piangere, tutto ciò per cui si impegna è il suo benessere e la sua felicità. Questo può portare a volte a non dare il giusto valore alla tristezza di un bambino: se lui non è triste io sono un buon genitore! Ma ciò implica sminuire il bambino, oltre quello che sta vivendo, significa deriderlo per quello che prova o non dargli la dovuta importanza. E questo sì che sarebbe un bel fallimento!
A volte succede addirittura che un bambino venga rimproverato per ciò che manifesta: capita soprattutto ai maschi, che secondo la classica visione patriarcale devono essere forti, cosa ben lontana dall’immagine piangente di un bambino triste. E allora può succedere di sentire frasi come “Non piangere, non sei mica una femminuccia!”, “Tu sei un maschietto , devi essere forte!”. Frasi che implicano che il genitore sta negando una parte – importante – del bambino. E se il genitore la nega e non vuole vederla, allora il bambino – pur di essere accettato ed amato – impara a nasconderla e negarla a sua volta, sostituendo alla tristezza un sentimento diverso, molto spesso la rabbia. Questa nuova emozione – falsa – gli impedisce però di comprendere quello che gli sta succedendo e soprattutto non gli permette di rispondere al suo bisogno: la rabbia infatti non parla di una mancanza e non cerca una presenza per essere placata, per cui quando il bambino agisce tale emozione – con tutto quello che comporta – non può dare sollievo alla tristezza.
Invece è importante che tutti, maschi e femmine, siano messi in condizione di riconoscere il significato e il valore della propria tristezza e di imparare a cercare la presenza di una persona rassicurante quando la sperimentano. La tristezza, infatti, non parla di un fallimento genitoriale, ma di un’esperienza normale, affrontabile e superabile. Meglio se non da soli!
Esserci e condividere
C’è una scena del film di animazione I Croods che a mio parere tratteggia meravigliosamente cosa significhi essere presenza significativa accanto ad una persona triste.
Quando tutta la famiglia deve mettersi in salvo da un’enorme frana, il padre rimane nel bel mezzo del cataclisma e la figlia – ormai al sicuro – piange quella che crede sia la sua morte suonando un corno che proprio il padre le aveva dato, con l’istruzione di usarlo in caso di pericolo. Il resto della famiglia assiste alla sua tristezza e uno per volta, a cominciare dall’arzilla nonnina, iniziano a mettersi al suo fianco e a suonare a loro volta il corno che ciascuno aveva con sé.
Senza tanti proclami, senza parole, sono affianco a lei, vivono e condividono il suo dolore. Non cercano di calmarla, non le chiedono di non piangere. Si fanno presenza empatica, che comprende e si fa carico della sofferenza, esprimendola tutti insieme.
Questo è il compito del genitore. Perché solo assumendo su di sé il dolore del figlio è possibile aiutarlo a contenerlo, incanalarlo e – a tempo debito – superarlo.