Uno, nessuno, centomila volti di chi compiace
Seguo S. da circa un anno e mezzo quando, mentre esaminiamo insieme le ragioni di un determinato comportamento, mi sento dire senza tanti fronzoli una cosa che ormai è chiara ad entrambi: “Devo meritarmi di stare al mondo“. E il modo in cui ha imparato a “meritarlo” è trovare sempre come far contenti gli altri, a discapito della propria felicità.
Anche M., nella cui terapia abbiamo affrontato crisi davvero importanti, ha ben chiaro che gran parte dei suoi problemi hanno origine nell’aver cercato per anni di essere quello che altri volevano da lei, senza ascoltare se stessa. E ha lavorato sodo per ritrovare la propria voce e non metterla più da parte.
Di esempi come questi ne ho davvero tanti, perché molte persone imparano che per essere accettate, riconosciute ed amate dagli altri devono compiacerli, che per far restare qualcuno accanto a loro devono incarnare ciò che l’altro desidera. E in questo modo perdono di vista se stesse.
La spinta a compiacere
Nella teoria dell’Analisi Transazionale le spinte sono meccanismi messi in atto per tenere a bada sentimenti dolorosi che nascono da messaggi interni inconsapevoli, legati quasi sempre all’idea di non avere valore o di non essere abbastanza per chi ci sta attorno. Per quanto apparentemente ci permettano di “restare a galla” in questi sentimenti dolorosi, il loro aiuto è parziale e temporaneo: sono, infatti, il modo migliore che abbiamo trovato per non stare male, ma non sono risolutive.
La spinta “Compiaci” fa sì che una persona tenda ad iper-adattarsi a bisogni e desideri degli altri, svalutando i propri. Pur di credere di avere un proprio valore e di essere importante per qualcuno, sceglie di mettere a tacere la propria voce e di incarnare ciò che pensa l’altro desideri (e non sempre ciò corrisponde al reale desiderio). Inoltre sceglie di non esprimere le proprie opinioni e non riesce a disubbidire, per paura di rimanere sola, di non avere nessuno che l’apprezzi.
Chiaramente la spinta a compiacere viene appresa in famiglia, in contesti in cui se un bambino esprime la propria idea non viene considerato, viene sminuito o addirittura allontanato, messo da parte. Oppure in contesti in cui ad un bambino viene fatta continua richiesta di assecondare l’altro, di fare cose che fanno piacere all’altro e di mettere le esigenze altrui prima delle proprie. Fino a che il bambino inizierà a pensare che va bene solo se compiace, ossia se mette gli altri prima di se stesso, e inizierà a comportarsi in questo modo per sentire di andare bene e di essere amato, perché è di questo che ciascuno di noi ha bisogno.
Come dicevo, però, il sollievo provato compiacendo è solo temporaneo, perché appena si smette di adeguarsi all’altro (o per qualsiasi motivo non si riesce a soddisfare le sue aspettative o richieste) torna il senso di inadeguatezza, l’idea di non essere abbastanza, di non meritare di stare al mondo.
Chi sono io?
Chi impara a compiacere ha mille volti diversi, perché cambia in continuazione per assumere la “forma” richiesta nella specifica relazione in cui si trova. Ha nelle orecchie mille voci diverse che gli dicono come deve o non deve essere e in base a quelle voci con ogni persona che incontra assume un volto specifico – anzi indossa una precisa maschera -, perciò se lo si osserva a distanza si vede che la maschera cambia nelle diverse relazioni. E quando è solo con se stesso e resta senza maschera, è molto probabile che non sappia assolutamente nulla di sé.
E’ “uno, nessuno e centomila”, proprio come diceva Pirandello. Ma non per cattiveria, non per approfittare dell’altro con l’inganno: perché ha bisogno di sentirsi amato, di sentire che può stare al mondo ed avere un valore agli occhi di qualcuno. Sente che va bene solo se piace agli altri e investe tutte le sue energie allo scopo di ottenere questo tipo di riconoscimento, a costo di perdere se stesso.
Perché per quanto le persone che compiacciono diventino nel tempo davvero molto abili nel comprendere ed intuire le aspettative altrui, così da potersi adattare, non sanno ascoltare se stesse, non sanno cosa desiderano, non conoscono chi sono.
Hanno difficoltà a prendere decisioni, evitano di prendere l’iniziativa e cercano di capire cosa vogliono gli altri, così da conformarvisi; cercano qualcuno che indichi loro cosa fare, perché non sanno in che direzione andare; chiedono il permesso per qualsiasi cosa; non riescono ad esprimere le proprie idee e la propria creatività, non sembrano più in grado di fare ciò che piace a loro.
Il giusto permesso
Ogni spinta ha come antidoto un permesso corrispondente, che nel caso del “Compiaci!” consiste nel dare alla persona l’autorizzazione a fare ciò che piace a lei. In altre parole chi è abituato a compiacere deve imparare che va bene anche se desidera cose diverse dagli altri e se ciò che fa piace a sé, anche se non fa piacere agli altri. Allo stesso modo deve imparare che gli altri possono fare cose che piacciono a loro – anche se a lei non fanno piacere – e che può chiedere agli altri ciò che lei vuole e che gli altri sono liberi di dire di no, così come lei è libera di dire no quando vengono fatte delle richieste.
Per riuscire in tutto questo è necessario imparare a fare contatto con i propri bisogni e desideri, fare contatto con le proprie idee e con le proprie emozioni e darsi il permesso di esprimerli e di esprimersi, di permettersi di fare ciò che realmente piace.
Spesso per arrivare a vivere in serenità un simile contatto è necessario partire dal chiedersi “chi sono io? cosa voglio io per me?“. Ma sarà poi importante fare un passo ulteriore per scoprire le proprie qualità, per aver chiaro il proprio valore come essere umano ed imparare a darsi da soli i riconoscimenti di cui ciascuno ha bisogno, imparando poi a cercali anche nelle relazioni ma mostrandosi in modo autentico e spontaneo. Solo in questo modo sarà possibile smettere di indossare maschere per paura di non essere accettati e farsi vedere per ciò che si è realmente, mettendo se stessi ed i propri bisogni sullo stesso livello di quelli degli altri.
Perché tutti meritiamo di stare al mondo così come siamo e tutti meritiamo di essere amati, anche se non ci facciamo in quattro per incarnare i desideri espressi o non espressi di chi circonda.