Genitori “sufficientemete” buoni
L’ho già scritto varie volte (forse perché rispecchia pienamente la mia vita di questo periodo) e lo ribadisco: essere genitori non è una passeggiata!
Già di base, trovarsi all’improvviso a dover provvedere a qualcuno che dipende in tutto e per tutto dall’esterno è un cambiamento immenso per chiunque: aver desiderato un figlio con tutto il cuore non implica essere preparati a quello che succederà con il suo arrivo. Ed è una realtà valida tanto per i figli naturali quanto per quelli adottivi. Se a questo si aggiunge che la società ci incalza con una serie di aspettative, doveri, consigli se non vere imposizioni, è chiaro come sia piuttosto facile dubitare del proprio operato.
Ogni genitore desidera essere perfetto per i propri figli, per poi trovarsi a fare i conti con la dura realtà degli errori che quotidianamente si commettono. Gli esempi ricevuti dai propri genitori non sempre sono adeguati ai cambiamenti sociali e tecnologici degli ultimi anni, i consigli sbandierati su televisioni, riviste e social network non sempre sono applicabili nelle proprie famiglie… e allora che si fa?
Dite addio alla perfezione!
La buona notizia è che non serve essere perfetti! Ciò che è necessario è essere sufficientemente buoni.
Tale concetto è stato elaborato da Donald Winnicott nella seconda metà del ‘900. Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese, parlò di madri sufficientemente buone, indicando in tal modo la capacità di adattarsi ai bisogni del bambino, di supportarne l’iniziale senso di onnipotenza e di sostenerne lo sviluppo verso l’indipendenza. Il tutto seguendo il proprio istinto, che porta dall’essere totalmente devote al figlio, nelle prime settimane di vita, al creare uno spazio di separazione in cui sarà possibile presentargli gli oggetti e sostenerlo nell’esplorazione man mano più autonoma del mondo.
Allargando l’obiettivo, ritengo che questo concetto sia applicabile ad entrambi i genitori, anche perché molte cose sono cambiate da quando Winnicott ha elaborato le sue idee e i padri hanno assunto un nuovo ruolo.
Vediamo meglio cosa significa.
Papà, non “mammi”!
Rispetto al secolo scorso (anche a pochi decenni fa), oggi la cura dei figli è divisa in modo più paritario tra madri e padri, cosa che permette ai figli di godere della diversità di cure che i due genitori sanno dare. Il che è un gran bene per i bambini! Madri e padri si approcciano ai figli (qualunque sia la loro età) in modo diverso e sarebbe un errore voler snaturare il modo di amare e accudire che ciascuno di loro esprime per far sì, ad esempio, che il padre diventi un “mammo”.
Anche se il padre resta a casa e la madre va a lavorare, non deve modificare il suo modo di essere genitore: potrà svolgere compiti che tipicamente sono stati della donna, ma perché non dovrebbe farlo da uomo? La sua cifra di accudimento sarà maschile ed è giusto che lo sia. Il bimbo avrà modo di godere dell’amore materno e femminile quando la mamma sarà tornata a casa.
Per questo è importante che anche i padri imparino a fidarsi del proprio istinto, mettendo a tacere sciocchi suggerimenti. Si può sbagliare e imparare dai propri errori (proprio come fanno le mamme) senza per questo sentirsi meno capaci. Chiedere aiuto se è necessario è sempre una buona idea. E a partire da quello trovare il proprio modo di stare con i figli, seguendo le proprie intuizioni… e non istruzioni preconfezionate!
A ciascuno il suo ruolo!
Se le famiglie “tradizionali” si trovano a fare i conti con una nuova divisione dei compiti e dei ruoli, la situazione non è più semplice per le “nuove” forme di famiglia.
Nel caso di presenza di un solo genitore (che sia per una separazione o per la morte dell’altro), il genitore presente deve riuscire a ricoprire i ruoli di entrambi. Deve quindi dare le cure e l’affetto necessari ad una sana crescita, ma anche le regole che la indirizzano. E per quanto non sia sempre semplice, anche in questo caso bisogna prestare attenzione a non snaturare il proprio modo naturale di essere genitore, quella cifra materna o paterna che ci si porta dentro.
Nel caso di famiglie ricostituite, invece, laddove si trovano a vivere insieme figli di un partner, figli dell’altro partner e magari anche figli nati dai due partner attualmente conviventi, diventa fondamentale negoziare il ruolo di ciascun adulto nei confronti di ogni bambino. Da un lato infatti, sarebbe errato comportarsi diversamente con i vari bambini a seconda che siano figli propri o meno, dall’altro però non bisogna dimenticare che esistono anche i genitori naturali di cui bisogna tener conto e che bisogna coinvolgere nelle decisioni più importanti. Per cui è bene che i partner decidano insieme come portare avanti l’educazione di tutti i figli, tenendo bene a mente quale è il suo obiettivo.
Dalla dipendenza all’autonomia
Winnicott diceva che le madri sono inizialmente totalmente devote ai figli, per poi dare spazio all’innata spinta verso lo sviluppo che porterà i bimbi verso l’indipendenza. Su questo tema oggi la società manda messaggi molto ambigui. Da un lato la buona mamma è quella che lascia il lavoro o lo mette momentaneamente in stand-by per occuparsi dei figli (e guai alle vip che a tre mesi dalla nascita dei pargoli riprendono il lavoro), dall’altro la donna di successo è quella che non si fa fermare dall’arrivo della cicogna (per cui bisogna essere immediatamente in forma e pronte a rimettersi in sella per non rinunciare alla carriera).
Ma qui non vogliamo essere perfetti, solo sufficientemente buoni. E allora che si fa?
Per prima cosa ascoltare l’istinto che dice che i bimbi piccoli hanno bisogno di un accudimento costante perché sono dipendenti in tutto e per tutto da qualcuno. E per natura quel qualcuno è la madre. Almeno inizialmente. Poi nulla vieta che ci si organizzi in modo diverso. Senza fretta. Senza far violenza ai piccoli, ma nemmeno a se stesse (e parlo per quelle madri che possono permettersi il lusso di scegliere cosa fare, perché spesso è impossibile e con le lacrime agli occhi bisogna salutare i figli e tornare a lavoro).
Lo sviluppo porta inevitabilmente verso la crescita, che quando è sana è sinonimo di autonomia e indipendenza (emotiva, non economica). Ma per quanto questo sviluppo vada assecondato ed agevolato, non va affrettato, anticipando i tempi e bruciando le tappe. Affinché questo sia possibile la complicità dei genitori è fondamentale. Il padre sostiene la madre nel periodo in cui è tutta per il bambino, le dà modo di recuperare le energie, le offre la fiducia e l’appoggio di cui necessita per sentire che sta facendo bene, mentre la madre accoglie il padre in quello spazio a due che per nove mesi è stato culla e linfa del bambino, lo invita ad entrare sempre più nel suo mondo e a muovercisi con sicurezza. In seguito sarà proprio il padre ad aiutare i due a “staccarsi”, affinché l’interdipendenza ceda il passo, gradualmente, all’autonomia, ed aiuterà la madre a vivere il suo nuovo ruolo nei confronti dei figli.
Il giusto tempo
Trovare il giusto ritmo in questa danza non è semplice. Ogni genitore viene da esperienze diverse, ha idee diverse sul proprio ruolo e, fondamentalmente, non sa mai cosa realmente succederà nella relazione coi figli. Per non parlare del fatto che non appena si pensa di essere riusciti a comprendere come muoversi, cambia improvvisamente lo scenario perché i bisogni dei figli evolvono. Sbagliare è all’ordine del giorno. Per questo è importante parlare, confrontarsi, correggersi con amore, consapevoli che oggi è toccato a te, domani toccherà a me fare una sciocchezza.
Ed è ancora più importante sapersi immergere totalmente nella realtà del bambino, tornare piccoli con lui e come lui, giocare col figlio godendo di quel gioco. Il che vuol dire essere coinvolti nel gioco, divertirsi con i figli, non mettersi un gradino più su di loro ma stare al loro stesso livello, che spesso significa anche stare fisicamente per terra con loro.
E trovare il tempo per farlo tutti insieme: mamma, papà e bambini. Perché è in quei momenti che si respira davvero aria di famiglia. Ed è in quei momenti che l’amore cresce, unisce le persone, nutre e dà forma alla mente dei bambini.